E se perdessi le elezioni?

Come i leader di PD e 5S affrontano una possibile débâcle elettorale

“Io non perdo mai. O vinco o imparo.” I più la attribuiscono questa frase a Nelson Mandela, o forse l’ha detta per primo un allenatore di basket. Si tratta però di un concetto che tutti dovrebbero applicare, in primis i leader; specialmente nei momenti peggiori. George Washington, Charles De Gaulle, Winston Churchill ne sono solo alcuni esempi. 

 Palmiro Togliatti, che guidò il vecchio PD per un quarto di secolo in un difficile dopoguerra, non si dimise dopo la sconfitta alle fondamentali elezioni del 1948, le prime a suffragio universale che determinarono i successivi cinquant’anni della neonata Repubblica. Non si dimise dopo una sconfitta che, in quel momento storico, poteva avere conseguenze devastanti. Altri leader non si sono tirati indietro nei momenti peggiori dei loro partiti. Possiamo menzionare anche Benigno Zaccagnini, segretario DC durante il sequestro Moro, che condusse il partito alle successive politiche del 79 il cui risultato fu un calo dei comunisti. Lo stesso Craxi non abbandono il suo PSI ai primi sentori della valanga giudiziaria che si stava approssimando. Andreotti ha mai abbandonato le sue posizioni?

Anche i partiti la usano. Il Partito Repubblicano americano, squassato dallo scandalo Watergate e dalle dimissioni di Richard Nixon, non pensò minimamente di sciogliersi o darsi un nuovo volto, ma mise le basi per la successiva presidenza Reagan che caratterizzò i successivi anni 80 fino al crollo dell’Unione Sovietica. In Gran Bretagna e Stati Uniti, anche a fronte di esisti elettorali disastrosi, i vertici dei partiti sconfitti non si sono mai pensati di “chiudere bottega”, ma cercato nuovi leader. E li hanno trovati; ma dopo la sconfitta.

Anche in Italia molti leader sono rimasti al loro posto dopo una sconfitta elettorale, e hanno atteso i successivi congressi per rimettere i loro mandati senza sottrarsi ad un confronto con le basi.

Il quadro sembra cambiato, e sorgono molte perplessità sull’atteggiamento dei leader dei due partiti alla guida dell’attuale governo: Di Maio e Zingaretti. Il primo si è già dimesso da capo politico poco prima di un importante test elettorale; il secondo ha annunciato di voler rifondare il proprio partito e, forse, cambiare il nome. Sono due fatti oggettivi e che ben possono essere letti congiuntamente traendo una conclusione forse semplicistica ma sulla quale è difficile avere dubbi. Quella cioè che i vertici dei partiti di governo non siano per niente ottimisti sul risultato elettorale odierno.

Non è certo un bel messaggio per i loro elettori che, proprio oggi, devono decidere non solo per la Calabra e la fondamentale Emilia Romagna e il cui voto potrebbe avere conseguenze per il governo e portare così il paese a nuove elezioni nel breve termine.

Non possono non esserne consapevoli Zingaretti e Di Maio che, con i loro rispettivi atteggiamenti, hanno probabilmente spiazzato una parte del loro elettorato. Forse l’ex capo politico del movimento grillino ha pensato di defilarsi per evitare un’inevitabile resa dei conti da chi già lo metteva in discussione, oppure ha preso consapevolezza di essere inadeguato al ruolo. Potrà riciclarsi e non è inverosimile che abbia un futuro come protagonista di reality o talk show nazionalpopolari.

Più serio, e forse imbarazzante, il caso di Zingaretti. Il governatore del Lazio ha da poco preso in mano il timone di quello che una volta era il partito comunista più importante dell’Europa occidentale e già parla di un’ennesima opera di camaleontismo, per far cambiare non solo pelle a al PD, già PdS, Margherita e qualcosa di altro. Siamo certi che gli sia data questa chance in caso di sconfitta?

Questa sera, dopo il risultato elettorale, forse già potremo conoscere le intenzioni per il futuro e, a breve, verificare la tenuta del secondo Governo Conte, sul quale potrebbero arrivare picconate interne. Ma abbiamo un dato di fatto certo: coloro che avrebbero dovuto guidare i due partiti,  hanno dato messaggi non positivi: Di Maio abbandonando un Titanic che non ancora urtato l’iceberg, Zingaretti preparandosi ad abbandonarlo per una nuova imbarcazione.

Verrebbe da cercare una frase degna di Machiavelli o Andreotti per chiudere, ma probabilmente si presta meglio una citazione di Ronald Reagan che disse “Someone once said that politics is the second-oldest profession. I’m beginning to think it bears resemblance to the first.”

Gianni Dell’Aiuto

www.dellaiuto.com

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